lunedì 4 dicembre 2017

Ritratto di Renzo Arbore

Su  Repubblica del 3 dicembre 2017   un'interessante  intervista di Antonio Gnoli

e il ritratto  di Riccardo Mannelli a Renzo Arbore.



Renzo Arbore
Renzo Arbore: ho un vizio, l'eterna giovinezza

di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli
Dice di sé che tutta la vita è stato un goliarda. Anche la casa dove vive sembra intonarsi allo scherzo. Un finto ( ma per questo anche vero) museo un po' regno della plastica e un po' della fantasia, appaga i suoi deliri di collezionista: dalle radio agli orologi, dalle Madonne ai busti ( Totò impazza), dai ritratti ( prevalentemente i suoi) ai dischi, nulla sembra disporsi seriamente. La cucina — dove prepara un caffè — è l'esempio più sgargiante del suo horror vacui. Uno spazio, in stile tropical- kitsch, con annessa finta vista sul Golfo di Napoli è un'esperienza conturbante. Ma chi è veramente quest'uomo che ha fatto dei gadget la sua filosofia?
Verrebbe voglia di pronunciare la parola " postmoderno" se non fosse che Renzo Arbore la boccerebbe come la più ridicola usata in questi anni.
Ammetterà che qui in questa casa dei ninnoli perduti e ritrovati tutto sembra fuori dalla storia.
«È sufficiente che quello che ha visto appartenga alla mia di storia. Sono nato a Foggia nel XV dell'era fascista. Cioè nel 1937. Mussolini volle abolire il capodanno, convinto che l'anno nuovo si dovesse festeggiare il 28 ottobre, il giorno della marcia su Roma».
Cosa rivendica delle sue origini?
«Di essere dopotutto un provinciale, di esserlo restato in un Paese che ha abolito, si fa per dire, le province».
C'è molta differenza tra l'Arbore bambino, poi giovane e quello di oggi?
«Si cresce, si cambia, si evolve, ci si rincoglionisce, ma dopotutto resto sempre io. Sono il risultato di un'evoluzione taumaturgica».
Siamo ai paroloni.
«Solo per dire che ciascuno ha la possibilità di imparare dai propri errori e dalle stanchezze dettate dalla noia e dalla ripetizione».
La noia la teme?
«Come la peste. È una delle ragioni per cui, fin da piccolo, ho amato il jazz. Che è soprattutto improvvisazione».
Come si è scoperto questa passione?
«Sui dischi di Louis Armstrong. Avevo preso a imitarlo suonando a quattordici anni una vecchia tromba. Fu il clarinettista Franco Tolomei a prestarmi il suo strumento, a farmelo scoprire e a farmene apprezzare il suono. Nei primi anni Cinquanta fondai insieme ad alcuni amici il "Jazz college" di Foggia. Eravamo una piccola band. In quegli anni a Foggia capitavano jazzisti famosi come Gianni Sanjust e Carlo Loffredo. Imparavo da loro e ascoltando in casa la radio».
I suoi genitori che dicevano?
«A mio padre, dentista appassionato di lirica, piaceva la canzone napoletana. Scoprii così la grandezza di Roberto Murolo. Non immaginavo che anni dopo avrei duettato con lui suonando Reginella e che mi avrebbe preso in simpatia. Certe sere a Napoli, dove mi ero trasferito per studiare all'università, si faceva portare in giro sulla mia Seicento, e con grande tenerezza raccontava a me e a un mio amico la città che lo aveva visto bambino».
Quale è stata la sua forza?
«La voce, sommessa e a volte perfino sussurrata. Fu la sua originalità. Fino ad allora i cantanti si dividevano in tre categorie: "di giacca", cioè artisti della sceneggiata smargiassa, lirici, oppure cantavano " a fronn' e limone", ossia il cantante dispiegava la propria voce senza bisogno dell'accompagnamento musicale».
Il suo nuovo lavoro discografico "Arbore Plus" è un riepilogo di tutti i generi che lei ha cantato con la sua Orchestra. C'è il pop e lo swing, c' è il crooner e ci sono le canzoni napoletane. Una cinquantina fra testi celebri e in parte suoi o rivisitati da lei. Tenuti insieme da cosa?
«Dall'idea che la musica sia uno dei pochi toccasana della vita. La canzone immalinconisce o diverte, a volte fa entrambe le cose».
Le piace molto il genere umoristico?
«Negli anni ho tentato di riproporlo. Uno degli ultimi a praticarlo fu il grande Renato Carosone. La canzone umoristica nasce nel cafè chantant che a Napoli divenne il teatro di varietà”.
A Napoli diceva ha fatto l' università.
«Mi sono laureato in giurisprudenza alla Federico II. L' ambizione era diventare magistrato. Sono tornato poche settimane fa nell' aula in cui mi laureai per tenere una lezione su Totò: il grande consolatore».
È una definizione insolita.
«Ci ha consolati delle cose tristissime della vita. Su di lui hanno scritto tantissimo. Perfino gli intellettuali, che prima lo hanno snobbato e poi osannato».
Spieghi questo passaggio.
«Non è complicato. La Napoli di sinistra aveva ignorato se non schifato Totò. Poi se lo è annesso. Totò piaceva alla gente. Ma la gente non era abbastanza snob per quella sinistra. A Napoli c'era stato il sentimento monarchico e laurino; che conviveva, anche urtandosi, con la città del ripensamento: degli Ansaldo, dei Compagna, dei Rea, di Elena Croce e Antonio Ghirelli; poi è giunta la Napoli della sinistra, legata al Pci, che considerava una canzone retorica: ci sono voluti trent' anni per sdoganarla».
Insomma difende la Napoli da cartolina.
«Sì, la Napoli vituperata, la Napoli del cielo, del golfo, del Vesuvio e del mandolino, è quella che io amo più profondamente. E guardi, sotto sotto era anche la Napoli che piaceva al grande Eduardo».
Lo ha conosciuto?
«Aveva una grande simpatia per me e per il mio lavoro televisivo. Negli anni Settanta frequentavo una sua attrice che andavo a prendere dopo le prove al San Ferdinando. E lei a volte si lamentava. È diceva. Ma Eduardo, che spesso trattava male i suoi attori, sapeva anche tirargli fuori cose straordinarie».
Tra i due fratelli meglio Peppino o Eduardo?
«Al cinema meglio Peppino, era imbattibile. A teatro no. Lì Eduardo non aveva rivali».
Del loro lungo dissidio cosa pensa?
«Il dissidio a Napoli è cosa antica che si spiega con il sentimento monarchico. C' è sempre un re, deve esserci un re. La loro rivalità è esplosa perché tutte e due si sentivano ' o rre».
Dopo Napoli ci sono stati gli anni romani.
«Mi laureai nel 1963. Impiegai sette anni. Non avevo nessuna intenzione di fare l'avvocato, anche se l' approdo in magistratura non mi dispiaceva. Ma toccava studiare troppo».
A un certo punto in televisione la si è vista indossare la toga con i risvolti di ermellino.
«Ecco, appunto: avrei potuto fare il magistrato. In occasione dei quarant' anni di Sanremo allestimmo un finto tribunale dove io facevo il pubblico ministero e Lino Banfi l'avvocato difensore, insieme a Michele Mirabella l' accusa e Massimo Catalano il teste».
Torniamo al suo arrivo a Roma.
«Giunsi nel 1964. Concorso in Rai, i primi programmi di musica e poi l' incontro con Gianni Boncompagni».
Che televisione si faceva allora?
«Paludata. Anche se cominciavano le prime timide aperture».
Contrastate dalla Democrazia Cristiana?
«Ma neanche tanto. Il capo supremo della Rai era Ettore Bernabei. Come direttore generale aveva il potere di vita e di morte su tutti noi. Ma credo che, nella osservanza delle regole, sia lui che altri dirigenti furono consapevoli che la televisione stava cambiando».
Lei Arbore fu uno dei motori di quel cambiamento?
«Me ne assumo la responsabilità. Allora lavoravo in radio e diversi furono i tentativi per svecchiarne i contenuti. Il momento storico coincideva con il boom discografico e diversi artisti internazionali si riversarono sul nostro mercato della canzone».
Un vettore fondamentale fu il Festival di Sanremo.
«L'anno di svolta del Festival fu proprio il 1964. Arrivarono artisti del calibro di Gene Pitney, Paul Anka, Pat Boone, Wilson Pickett e duettarono con i nostri. L' anno dopo esordii con la trasmissione Bandiera Gialla. Fu Boncompagni a darmi l' idea di un programma composto da musiche molto diverse da quelle che allora venivano trasmesse. Ricordo la mia obiezione a Gianni: "Ma si potrà fare?". E lui con molta tranquillità: "Si può, si può, vai tranquillo". Da lì partì il nostro lungo sodalizio radiofonico».
Che cosa le manca di lui?
«La sua capacità intuitiva e il fatto che sapeva sempre prendere la strada più rapida per raggiungere un obiettivo. Lui di Arezzo e io di Foggia. Lui estroverso e io timidissimo. La prima volta che ci incontrammo mi disse che aveva trascorso un periodo in Svezia. Per me, che avevo le stimmate del meridionale, la Svezia era il massimo della trasgressione e Gianni il risultato più sorprendente».
La televisione vi divise?
«Di fatto fu così, ma siamo sempre restati uniti da un legame profondo. Non si può fare una rivoluzione - e la nostra alla radio lo fu - senza sentirsi parte di un mondo comune e un po' speciale. Questo sentimento si rafforzò negli ultimi mesi della vita di Gianni. Andavo a casa sua facendogli sentire le cose che avevamo fatto insieme. E ridevamo, felici, come ai vecchi tempi. Giocavamo sulla vecchiaia senza che lui si rendesse conto che stava morendo».
Lei gioca ancora sulla sua vecchiaia?
«Sono nella fase drammatica in cui ho perso molti punti di riferimento. E tra questi forse il più importante: Mariangela Melato. Tra noi, negli ultimi tempi, era tornato un amore intenso, serio, perfino fanciullesco. Con lei ho perso la profondità delle cose».
 Che intende?
«Non c' è correttezza, non c'è amore, non c' è arte, non c'è lealtà se non si ha il senso profondo delle cose. Mariangela me lo ha insegnato».
Vuole dire che ha scalfito la sua "eterna giovinezza"?
«L'ha resa più matura, senza renderla decrepita. Uno non può essere diverso da come è fin dall'inizio. Però può arricchire questa origine, renderla meno scontata. A volte mi consolo pensando che la mia "immaturità" sia stata fonte di intelligenza e di divertimento per tante persone. Perché senza quella "immaturità" non avrei fatto ciò che poi ho realizzato facendo altro».
Ossia?
«Ho sempre fatto " altro". L' altra radio, l' altro cinema, l' altra domenica, l' altra orchestra. Nel nome di questo "altro" ho creato mode senza mai seguirle. Con Gianni abbiamo inventato la categoria dei "giovani", prima si passava da bambini-ragazzi ad adulti».
Per lei che è sempre stato dalla parte della critica musicale come è avvenuta la decisione di cantare?
«Fu ascoltando Enzo Jannacci, era talmente surreale da sfiorare la genialità. Sia Paolo Conte che io consideravamo Enzo il numero uno, per la forza dirompente e stralunata delle sue canzoni. Per la malinconia che era in grado di imprimere. Fu così forte l' emozione nell' ascoltarlo che mi sentii per la prima volta tentato di passare dall' altra parte del fiume».
Fa poca televisione, le manca?
«Intanto ho un "Arbore Channel" dove cerco di spiegare alle generazioni più recenti cosa è stata la televisione e la canzone italiana. Mi chiede se mi manca. Le rispondo che non so se essere più arrabbiato o rattristato. Nella mia carriera è capitato varie volte di essere fatto fuori, per far largo ad altri. Cominciò con Per voi giovani».
Era una trasmissione di successo come giustificarono la decisione?
«Dissero che ero diventato cattedratico. Di fatto venni cacciato. Anche da Bandiera Gialla. Era il 1970. Improvvisamente sia io che Gianni eravamo diventati due vecchi goliardi troppo disimpegnati per poter stare al passo con i tempi».
E oggi?
«Ho la mia Orchestra italiana con cui giro il mondo, ma dalla nuova dirigenza della Rai vengo guardato come un vecchio soprammobile di lusso ma impolverato. Viviamo l' età dell' audience. Posso dire che forse negli anni ruggenti della nostra radio anche noi pensavamo che un ottantenne non aveva più molto da dire. Mi sbagliavo».
Indiscutibilmente lei ha molti impegni. Come vive il senso profondo dei suoi anni?
«Godendo di una certa saggezza che mi consente di decifrare i nostri difficili tempi storici. Vedo con paura quello che accade e mi sembra di poter dire che l'uomo non abbia imparato la lezione di tener testa alla prepotenza, all'arroganza, all'ottusità, al fanatismo. Si sta diffondendo il contagio della paura scatenato dall'idea che l'immigrato ci minaccia. Non siamo più italiani brava gente».
Lo dice con un velo di commozione.
«Dica pure di pianto. Io non riesco a percepire queste persone come dei nemici. Le ho fatto visitare la casa e ha visto nella mia stanza il ritratto di Abramo Lincoln, fu il presidente che firmò l'abolizione della schiavitù».
Le accade di piangere?
«A volte mi succede. Non voglio sembrarle il vecchio che si commuove perché rimbambito. Penso che le lacrime siano la più diretta emanazione del cuore. Un organo più importante del cervello. L'intelligenza a volte fa dei brutti scherzi. Il sentimento no. Con quello ho guidato spero rettamente e goliardicamente la mia vita».
03 dicembre 2017

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