martedì 1 aprile 2014

Ritratto di Ennio Morricone

Il 26 marzo su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Ennio Morricone



"Credo in Dio, sarebbe bello nell'aldilà trasformarci tutti in suoni"




Morricone: "La musica mi ha salvato da fame e guerra.

Ma l'arte è puro talento,
la sofferenza non c'entra"


La colonna sonora di una vita. Il grande compositore si racconta.

 di ANTONIO GNOLI

La recente operazione di ernia del disco ha messo Ennio Morricone nel rassegnato malumore dei convalescenti. Mi guida con lentezza nella vasta casa romana: "Per il dolore passo alcune notti seduto in poltrona. Spero che il calvario finisca presto", dice. E sembra quasi un commiato più che l'inizio di una conversazione. Dalle finestre del grande salone si intravede un'ampia porzione del Vittoriano. Somiglia a una torta di matrimonio. In quel delirio di marmo, officiato dalla gloria dei militi scomparsi e ignoti, si rappresenta l'onirica vanità di certi simboli che ruotano attorno alla guerra e alla pace. Chiedo al maestro se ha mai fatto caso al fatto che certe celebrazioni somigliano un po' a delle grandi colonne sonore della nazione. Mi guarda sorpreso. Larga parte della vita di questo artista, penso, è stata una fervida committenza con registi e produttori cinematografici. Un trionfo di suoni. In fondo, azzardo, anche quel pezzo di "vita marmorea", che è lì fuori, emana suoni. E improvvisamente ricordo di aver letto tanti anni fa un bellissimo libro sulle "pietre che cantano" e che il suo autore, Marius Schneider, riportava il suono all'origine del mondo: dei e demoni lottarono gli uni contro gli altri per impossessarsi del potere della forza canora: "È una teoria suggestiva, mi fa pensare che una linea frastagliata corra lungo tutta la storia della musicalità. Fatta di scontri e di conquiste, di successi e fallimenti".

Cos'è il potere della musica?
"È la sua natura evocativa, ma cosa evochi resta chiuso nel sentimento di ciascuno. Ma al tempo stesso è un potere che crea un legame collettivo, una comunità dell'ascolto. O, più paradossalmente, del silenzio".

È importante il silenzio nella musica?
"È la sua parte più segreta e intima. Qualche settimana fa Riccardo Muti ha eseguito a Chicago una musica che scrissi nel ricordo della tragedia delle Twin Towers e che ho chiamato, non a caso, Voci dal silenzio. C'è un istante, dopo un grave trauma, in cui tutto si ferma. Tutto tace. È in quel momento che il suono manifesta la sua forza".

Viviamo in una società del rumore che ha sconfitto il silenzio. Cosa le suggerisce?
"Non condannerei il rumore. È una risorsa per la musica. I rumori non sono difetti, non sono errori. Non mi creano infelicità mentale. Non faccio che ascoltare rumori. Sono una fonte di ispirazione, perfino sgradevoli ma di brutale bellezza, densi di esperienza e di vita. Mi accorgo di concentrarmi, a volte, su qualche rumore particolare  -  il ronzio di un aereo per esempio  -  e di trasformarlo, nella tonalità in cui riesco a pensarlo, in una specie di canto interiore".

Un'educazione che nasce nella strada?
"Diciamo pure nel mondo. Anche se non è trascurabile l'apporto dei maestri".

A chi pensa?
"A mio padre che suonava la tromba. Fu lui a insegnarmi la chiave di violino e a trasmettermi la passione per quello strumento. Mi iscrissi al conservatorio di Santa Cecilia, a Roma. Feci un corso di armonia complementare e poi andai a studiare composizione. Seguivo le lezioni di Antonio Ferdinandi e in seguito quelle di Goffredo Petrassi".

Che anno era?
"Mi pare fosse il 1940 o '41. C'era la guerra. Roma invasa dai tedeschi. Avvertivo un senso di disperazione e di frenesia. Era la fame a scatenare i sentimenti più tristi. Con le tessere in dotazione non riuscivamo a soddisfare l'acquisto del pane e della pasta. Ma la cosa peggiore fu un'altra".

Quale?
"In quel periodo non sapevamo niente degli ebrei che venivano fermati, arrestati, deportati. E questo accadeva anche a pochi passi da casa. Ancora oggi avverto un lancinante dolore per quelle storie ignorate, per quei drammi invisibili dei quali siamo stati ampiamente inconsapevoli".

Sapere è importante?
"Lo è per decidere. Se dici: ignoravo ciò che è accaduto, poi ti devi chiedere: vale come giustificazione?".

E che risposta si è dato?
"Oggi penso che anche il non sapere sia una forma di responsabilità".

Dove abitava?
"Sul Viale Trastevere che allora si chiamava Viale del Re. Alcune finestre affacciavano sulla strada. Un pomeriggio assistetti dal davanzale al passaggio rapido dei carri armati. A un certo punto, dalla colonna uno di essi cominciò a sbandare. Vidi il carrista, che aveva perso il controllo del mezzo, fare dei gesti disperati. Si erano rotti i freni. All'altezza dell'ospedale San Gallicano il veicolo travolse una fontana e schiacciò un uomo. Fu il mio primo impatto con la morte".

E cosa provò?
"Stupore e paura. Quell'uomo un momento prima era vivo, mobile, indaffarato. Mi pare si stesse lavando le mani. Un attimo dopo non c'era più. Sembrava un fantoccio, un corpo inerte. E in lontananza sentivo le urla della gente. Quello scialbo pomeriggio si colorò di disperazione. Qualche tempo dopo, la morte si portò via mio fratello Aldo. Aveva tre anni".

Come accadde?
"Fu una morte assurda, tanto quanto l'altra. Ma questa volta provocata dall'insipienza di un medico. Aldo aveva mangiato delle ciliegie cadute da alcuni vasi. La sera prese a vomitare. Pensammo a un'influenza. Era estate. E il nostro dottore di famiglia era in vacanza. Chiamammo il sostituto. Che sbagliò completamente la diagnosi. Me lo ricordo Aldo, smagrito e sofferente. Con la mamma disperata che lo abbracciava. Morì per un enterocolite acuta, scambiata per un banale mal di pancia".

Come reagirono i suoi?
"Può immaginarlo. Fu terribile. Leggere la tristezza sui loro volti mi provocava un senso di sconforto infinito. Mio padre finì con l'accentuare il suo lato più severo. In contrasto netto con l'atteggiamento della mamma, la cui bontà assoluta era spesso fuori luogo. C'era un'esagerazione in entrambi i sensi che mi disorientava. Cercai sempre più rifugio nella musica".

Come fu il rapporto con Petrassi?
"Una fortuna averlo incontrato. Era un maestro fantastico. Incuteva una certa soggezione. Tanto è vero che quando, per guadagnare, iniziai a fare i primi arrangiamenti musicali alla radio, mi guardai bene dal dirglielo ".

Cosa glielo impediva?
"Temevo che vedesse in quella scelta una specie di corruzione. Ma quando, infine, lo seppe, reagì senza fastidio. Mi disse semplicemente: sono convinto che lei riguadagnerà il tempo che sta perdendo".

E quell'impegno era una perdita di tempo?
"Era la vita. Con i suoi compromessi e le sue necessità. Sapevo di non voler pesare sui magri bilanci familiari. In quegli anni collaboravo, spes-so in modo determinante, alle stesure musicali. Senza firmare. Senza apparire. È stata la mia gavetta. Poi un giorno mi chiamò Luciano Salce e realizzai le musiche del mio primo film".

Quale?
Il film era Il federale. Il regista mi fece vedere il filmato e lo musicai. Quell'esperienza andò bene e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi".

Tra i quali, immagino, Sergio Leone ha un posto di primo piano.
"È stato certamente importante. Ma di solito si dimenticano gli altri: Pontecorvo, Bertolucci, Petri, Montaldo, Bolognini, Tornatore per non parlare dei registi stranieri: da Brian De Palma a Terrence Malick. Mi scoccia un po' che si dica che tutto comincia e finisce con Sergio Leone".

Le musiche che ha dedicato ai film di Leone sono tutte di grande successo e straordinarie.
"Aveva l'ironia giusta. Eravamo stati perfino compagni di classe alle elementari. E fu il caso a farci rincontrare. Effettivamente Sergio comprese una cosa che gli altri non avevano ben chiaro: la musica è la sola arte che applicata al cinema ne esalta i dettagli".

Perché?
"Hanno in comune la durata. Leone intuì perfettamente che il tempo della musica doveva essere quello del cinema. Non credo che la musica che ho scritto per lui fosse migliore di quella fatta per gli altri registi. Ma con il suo cinema si stabilì questa intesa di fondo. A volte caricaturale, alsmagritotre ancora drammatica".

È un aspetto che ho trovato nella musica per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
"Il tema musicale del film di Elio Petri non era così immediatamente orecchiabile".

Era l'esasperazione caricaturale di una società fondata sull'ordine grottesco.
"Ricordo la presenza dominante del mandolino. Che faceva da contrappunto comico, in un certo senso spernacchiante, alla situazione tragica di un delitto. Con Indagine volevo provare a realizzare qualcosa di musicalmente diverso da quello che si faceva in quel periodo. In fondo, mi piaceva tener fede al consiglio di Petrassi: non ti buttare via, fai cose che risultino preziose alle orecchie del pubblico".

Ha lavorato anche con Pasolini?
"Abbiamo collaborato a lungo. La prima volta con Uccellacci e uccellini. Mi chiamò. Diedi la mia disponibilità. Lui mi fece avere una lista di musiche che dovevano essere adoperate o imitate. Gli risposi che ero un compositore e che non eseguivo a comando. Pasolini molto tranquillamente mi disse: beh, allora faccia quello che vuole. Poi con Teorema mi fece un po' penare. Disse: "Maestro, mi realizzi una musica dissonante e metta, come ho fatto in Accattone, una citazione dal Requiem di Mozart" ".

Cosa fece?
"In Accattone aveva inserito la musica di Bach. Pensai che fosse una questione scaramantica. Perciò accettai".

Dopo tutto erano grandissimi compositori.
"Non è questo il punto. Del resto a parte Pasolini, che volle anche in dire la sua sulle musiche, ho sempre rifiutato imposizioni. Un regista, non faccio il nome, mi chiamò e mi disse: "Maestro, mi faccia un bel Ciajkovskij". "Io non le faccio un bel cazzo di niente", replicai, attaccando il telefono".

Le sarebbe piaciuto collaborare con Fellini?
"Bella domanda. Oltretutto sapendo che per tutta la vita ebbe il sodalizio con Nino Rota. Ma non credo che sarei riuscito a lavorare con lui".

Perché?
"Sono convinto che Rota sia stato un bravissimo compositore. Ma la cultura musicale di Fellini, troppo influenzata dal circo, lo limitò, facendo prevalere il cromatismo. D'altra parte, Rota scrisse abitualmente musica assoluta che fu e continua a essere molto eseguita. E qui niente da dire ".

Anche lei ha diviso il suo impegno tra musica assoluta e quella dedicata al cinema.
"Da compositore ho vissuto intensamente entrambe le ambizioni".

Non le viene il dubbio, magari pensando a Petrassi, che una sola doveva essere la strada per un uomo di talento?
"Perché mai? Sono convinto che la musica del cinema sia a pieno titolo musica contemporanea. Non farei classifiche. Come non potrei dire che Visconti è meglio di Fellini o viceversa".

A proposito di Fellini viene in mente La dolce vita. Lei ha sempre vissuto a Roma. In che misura quella stagione l'ha coinvolta?
"La mitologia cresciuta attorno ai caffè di piazza del Popolo, o dell'allora più famosa via Veneto, mi ha sempre lasciato indifferente. Sarei stato un corpo estraneo. Ho sempre fatto una vita regolare e non ho mai frequentato i salotti. Forse per carattere o perché vengo da una famiglia tranquilla e modesta".

Non sembra che il successo l'abbia cambiata.
"Non credo di essere un narcisista e ritengo che il successo sia un evento provvisorio. Ed è duro, molto duro, confermarlo nel tempo. Ogni volta che penso di aver fatto il massimo, so che si può ancora fare meglio".

Un perfezionista?
"No, credo che la musica sia una vigile e costante applicazione del talento. È un mestiere totale. Almeno per me".

E che rapporto ha con la vita?
"In generale direi che ne fa parte. In particolare non ha niente a che vedere con la propria vita privata. Con le gioie e con i dolori personali. Mi viene da ridere al pensiero che un compositore traduca in musica la propria sofferenza".

È il punto di vista romantico.
"Detestabile e velleitario e anche retorico. Non esiste la musica ispirata dal sogno".

Lei sogna?
"Raramente e poi non li ricordo. Ne ho al più una vaga reminiscenza. Posso solo dire: credo di aver sognato".

Credere?
"Sì, credere. Si crede per abitudine, per convenienza, per assurdo. Per vaghezza".

Crede in Dio?
"Certo, con qualche perplessità sul dopo".

L'aldilà non la convince?
"Mi pare ci sia molta confusione. Resurrezione della carne? Boh. Saremo anime sublimate nella beatitudine? Chissà".

Forse saremo musica.
"Mi piacerebbe che ci trasformassimo tutti in dei suoni. Non era ciò che sosteneva l'autore da lei citato all'inizio?".

Marius Schneider?
"Lui. In fondo, se in origine eravamo dei suoni, mi pare bello pensare che torneremo ad esserlo".



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